(massima n. 1)
Il reato di riduzione in schiavitù nella precedente formulazione dell'art. 600 c.p. - per il quale chiunque riduce una persona in schiavitù, o in una condizione analoga alla schiavitù è punito con la reclusione da cinque a quindici anni - comprendeva l'ipotesi del mantenimento in schiavitù come indicato dal termine 'riduzione' interpretato alla luce della Convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926, resa esecutiva in Italia con R.D. 26 aprile 1928, n. 1723 nonché e, per quel che concerne la 'condizione analoga alla schiavitù', dalla Convenzione supplementare di Ginevra del 7 settembre 1956, resa esecutiva in Italia con legge n. 1304 del 1957 e dall'art. 4 CEDU. Ne deriva che il testo del vigente art. 600 c.p. - novellato dall'art. 1 della legge n. 228 del 2003 che titola analiticamente riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù - offre, pur con la modifica del trattamento sanzionatorio, un'interpretazione autentica del precetto originario, con la conseguenza che, qualora soggetto passivo del delitto di cui all'art. 600 c.p. - nella previgente o nella vigente formulazione - sia un minore sottratto all'autorità di un genitore (nella specie la madre già posta in stato di schiavitù), sussistono gli estremi costitutivi della fattispecie incriminatrice in questione a carico di chiunque e quindi, come nella specie, anche del padre che abusi della propria autorità, disponendo del minore come cosa propria o costringendolo a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento o autorizzando altri a costringerlo.