(massima n. 1)
L'art. 177 c.p. prevede tassativamente i casi in cui può farsi luogo alla revoca della liberazione condizionale, con la conseguenza che non è consentito applicare la disposizione stessa, peraltro di stretta interpretazione trattandosi di istituto sfavorevole al condannato, al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge. (Nella fattispecie il tribunale di sorveglianza aveva revocato il beneficio della liberazione condizionale nei confronti di un soggetto il quale era stato tratto in arresto — e condannato con sentenza non definitiva — per il reato di spaccio di droga, in ordine al quale aveva ammesso la propria responsabilità. Il tribunale aveva in particolare osservato che, pur non ricorrendo le condizioni per la revoca del beneficio della liberazione condizionale previste dall'art. 177, comma primo, c.p., il beneficio poteva ugualmente essere revocato, dovendosi ravvisare una terza categoria di comportamenti che, «ancorché non giudicati con sentenza irrevocabile alla stregua di illeciti penali — per i quali la prova del mancato ravvedimento opera evidentemente iuris et de iure — né configurabili quali gravi trasgressioni alle prescrizioni connesse alla libertà vigilata, siano però idonei a determinare la risoluzione del beneficio», consistendo in comportamenti «... così palesemente contrastanti con gli interessi della collettività da dimostrare senza ombra di dubbio che il liberato sia tuttora pericoloso». La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso proposto dall'interessato, ha annullato senza rinvio l'impugnata ordinanza enunciando il principio di cui in massima).