(massima n. 1)
La detenzione domiciliare, al pari di altre misure alternative alla detenzione in carcere, ha come finalità il reinserimento sociale del condannato e come presupposto, nel caso previsto dall'art. 47 ter n. 2 della L. 26 luglio 1975, n. 354 (cosiddetto ordinamento penitenziario), «condizioni di salute particolarmente gravi che richiedono costanti contatti con i presidi sanitari territoriali»; essa realizza, comunque, una espiazione di pena, pur se individualizzata e meno afflittiva. Il differimento della pena previsto dall'art. 147 c.p. è, invece, istituto anteriore all'ordinamento penitenziario, ha finalità diverse dall'individuazione del trattamento più opportuno nei confronti del condannato, in quanto mira ad evitare che l'esecuzione della pena avvenga in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità, e quindi rappresenta una conferma del fatto che l'espiazione della pena in tanto ha un significato, in quanto tende alla rieducazione del condannato. Ne consegue che allorché il condannato è affetto da grave infermità fisica per malattia la cui prognosi può essere infausta, la domanda di detenzione domiciliare deve essere considerata previa valutazione dell'aspettativa di vita del condannato stesso, poiché, quando questa è ridotta, è frustrato lo scopo del reinserimento sociale, impossibile per motivi estranei al trattamento o al comportamento del soggetto, e la sanzione diviene sofferenza inutile e contraria al senso di umanità. (Fattispecie relativa a istanza di differimento della pena proposta da condannato in stato di detenzione domiciliare ex art. 47 ter ord. pen. perché affetto da neoplasia recidivante e rigettata sul rilievo che il medesimo era stato autorizzato ad allontanarsi dal domicilio per cure, previa semplice comunicazione all'autorità. La Suprema Corte, nell'enunciare il principio di cui in massima, ha ritenuto erronea tale motivazione, che parifica il differimento della pena alla detenzione domiciliare, in violazione dell'art. 147 c.p.).