(massima n. 1)
In tema di esecuzione forzata, l'ordinanza, con la quale il giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 612 c.p.c., determina le modalità dell'esecuzione forzata di una sentenza per violazione di un obbligo di fare o di non fare, si caratterizza come un provvedimento con il quale vengono fissate le regole dello svolgimento del procedimento esecutivo e, quindi, non attiene al diritto della parte di procedere all'esecuzione, bensì ai modi con cui questa deve essere condotta, con la conseguenza che essa è soggetta soltanto al rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi per eventuali vizi formali; mentre il provvedimento con cui il giudice, ancorché in forma di ordinanza (come espressamente indicato nell'art. 612 c.p.c.), nel determinare le modalità dell'esecuzione, dirima una controversia insorta fra le parti in ordine alla portata del titolo esecutivo ed all'ammissibilità dell'azione esecutiva intrapresa, ha natura sostanziale di sentenza in forza del suo contenuto decisorio sul diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata, cioè su una opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c., proposta dall'esecutato o rilevata d'ufficio dal giudice, ed è, pertanto, impugnabile con l'appello. (Nella specie, in applicazione degli enunciati principi, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, la quale aveva dichiarato inammissibile l'appello proposto avverso una prima ordinanza, con cui il giudice dell'esecuzione, in una procedura relativa alla determinazione degli obblighi di fare previsti da una sentenza di divisione di un compendio immobiliare, si era limitato a disporre la comparizione delle parti e del c.t.u., dichiarando nello stesso tempo inammissibile l'appello avverso una seconda ordinanza, con cui il medesimo giudice aveva dato ordine al c.t.u. di procedere a tutte le attività e le opere necessarie secondo una delle soluzioni alternative precedentemente individuate dallo stesso consulente).