(massima n. 1)
A seguito del pignoramento di somme di danaro dovute da un terzo al debitore, il terzo, citato per rendere la dichiarazione di cui all'art. 547 c.p.c., non diviene parte del giudizio, né assume l'obbligo, giuridicamente sanzionato, di rendere la menzionata dichiarazione, derivando dalla sua mancata comparizione all'udienza pretorile, dal rifiuto di fare la dichiarazione e dalle contestazioni che insorgano in ordine a quest'ultima, l'unica conseguenza che egli potrà subire un successivo ed eventuale giudizio volto all'accertamento del credito (art. 548 c.p.c.). Ne deriva che la mancata presentazione del terzo all'udienza pretorile o la sua mancata dichiarazione, oppure la sua omessa costituzione nel giudizio per l'accertamento del credito non costituiscono — diversamente dal caso in cui egli renda una dichiarazione altamente reticente od elusiva, che allontani nel tempo la realizzazione del credito fatta valere nel procedimento esecutivo — comportamenti antigiuridici per lui produttivi dell'obbligo di risarcire eventuali danni in favore del creditore esecutante, che, fino all'assegnazione, può tutelarsi facendo valere la responsabilità contrattuale del proprio debitore in mora, dal quale può pretendere gli interessi e l'eventuale maggior danno, a norma dell'art. 1224 c.c. (Nella specie, la S.C., in base all'enunciato principio, ha cassato la sentenza del giudice del merito, il quale, sul presupposto che il terzo, quale ausiliario del giudice, ha un dovere di collaborazione e che non è dato distinguere tra mancata dichiarazione e dichiarazione mendace o fuorviante, aveva condannato il terzo stesso a risarcire il danno nei confronti del creditore esecutante, per avere omesso di rendere la dichiarazione e per essersi poi reso contumace nel successivo giudizio di accertamento, ritardando così la definizione del procedimento esecutivo e cagionando un pregiudizio al creditore esecutante).