(massima n. 1)
Il divieto di nuove eccezioni in appello, introdotto per il giudizio contenzioso ordinario con la legge 26 novembre 1990, n. 353, tramite la riforma dell'art. 345 c.p.c., e successivamente esteso al giudizio tributario dall'art. 57 del d.l.vo 31 dicembre 1992, n. 546, si riferisce esclusivamente alle eccezioni in senso stretto o proprio, rappresentate da quelle ragioni delle parti sulle quali il giudice non può esprimersi se manchi l'allegazione ad opera delle stesse, con la richiesta di pronunciarsi al riguardo. Detto divieto non può mai riguardare, pertanto, i fatti e le argomentazioni posti dalle parti medesime a fondamento della domanda, che costituiscono oggetto di accertamento, esame e valutazione da parte del giudice di secondo grado, il quale, per effetto dell'impugnazione, deve a sua volta pronunciarsi sulla domanda accolta dal primo giudice, riesaminando perciò fatti, allegazioni probatorie e argomentazioni giuridiche che rilevino per la decisione. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto non costituire domanda nuova la censura proposta in appello dall'Agenzia delle Entrate che aveva prospettato la necessità di fare corretta applicazione del trattamento tributario applicabile "alla previdenza integrativa erogata in forma di capitale", contestando l'assimilazione delle somme, dovute dal datore di lavoro al lavoratore a titolo di conversione del trattamento integrativo aziendale, al prelievo previsto dall'art. 6 della legge 26 settembre 1985, n. 482, applicabile "ratione temporis").