(massima n. 1)
Il principio della equipollenza degli atti processuali, di reazione giurisprudenziale, in base al quale si è affermato che la notifica prevista dall'art. 500 c.p.p. del 1930 può essere sostituita, qualora venga omessa o sia irritualmente eseguita, dalla notificazione di un atto (ordine di carcerazione, decreto di cumulo et similia) che abbia in sè gli estremi dell'atto contumaciale, con la conseguenza che, essendosi egualmente raggiunto per altra via lo scopo di dare all'imputato legale notizia dell'avvenuta pronuncia di una sentenza nei suoi confronti, egli è posto nella condizione di esercitare tutte le facoltà concessegli dalla legge, compresa quella di reagire, con l'impugnazione (apparentemente tardiva) contro le decisioni che reputi ingiuste, non può ritenersi tuttora valido. Tale principio, invero, con tutte le gravissime implicazioni che derivano dalla sua applicazione, deve essere rivisto alla luce di quanto dispone l'art. 670, primo comma, c.p.p., che non trova corrispondenti nella previgente disciplina dell'esecuzione penale, che espressamente prevede la rinnovazione della notificazione non validamente eseguita. Da tale disposizione si desume che, in nessun caso, il termine per la dichiarazione di gravame nei confronti dell'imputato giudicato in contumacia può avere decorrenza diversa da quella della notifica dell'estratto di sentenza, com'è del resto prescritto dal terzo comma dell'art. 199 in relazione all'art. 500 c.p.p. 1930 (e ora dall'art. 585 n. 1 lett. d, nuovo codice). Nè può il giudice ritenere che il non avere l'interessato proposto gravame nel termine decorrente dal giorno in cui ebbe notizia della pronunciata sentenza attraverso atto equipollente (quale può essere l'ordine di carcerazione emesso in forza di essa) stia a significare che egli abbia accettato gli effetti della notificazione dell'estratto irritualmente eseguita. Salvo il concorso di particolari circostanze di fatto tali da offrire una indicazione precisa in tal senso, l'accennato comportamento della parte interessata non può mai integrare l'ipotesi di sanatoria generale che è preveduta dall'ultimo capoverso dell'art. 187 c.p.p. del 1930 (e adesso dall'art. 183).