(massima n. 1)
Intrinsecamente contraddittoria la sentenza la quale, dopo avere ricordato la richiesta delle parti diretta ad ottenere una pronuncia secondo equità, procede alla ricerca di una soluzione transattiva nella quale si realizzi l'accordo delle parti stesse, ovvero si limiti ad accertare quale sia la volontà delle parti e, in base ad essa, determina il contenuto della pronuncia, affinché questa sia da esse riconosciuta come transazione: ed invero non è logicamente e giuridicamente ammissibile che le parti, nel momento stesso in cui richiedono la decisione secondo equità, stipulino un sostanziale accordo transattivo in relazione alla stessa controversia, perché la transazione, che definisce la lite con un negozio in cui si manifesta l'autonomia privata nell'ambito dell'ordinamento giuridico, e la pronuncia secondo equità, che dà luogo ad una decisione della controversia con una sentenza che vincola le parti come atto del potere decisionale del giudice, sono atti tali da escludersi a vicenda. La sentenza pronunciata secondo equità contiene necessariamente riferimenti espliciti o impliciti alla qualificazione giuridica dei fatti ed alla valutazione giuridica delle loro conseguenze; questi giudizio di diritto, pur non essendo direttamente censurabili a norma dell'art. 360, n. 3, c.p.c., perché il giudice che pronuncia secondo equità non è tenuto ad osservare rigorosamente le norme di diritto sostanziale, possono costituire, tuttavia, le fondamentali premesse logiche della decisione finale di equità, onde questa risulta irrazionale, ingiustificata e sostanzialmente priva di motivazione e come tale censurabile a norma dell'art. 360, n. 5, c.p.c., quando quelle premesse si rivelano del tutto fallaci ed erronee. (Nella specie il giudice del merito, chiamato a decidere secondo equità la controversia tra un conduttore che chiedeva la restituzione del deposito cauzionale a seguito dell'avvenuto rilascio dell'immobile locato ed il locatore, il quale domandava riconvenzionalmente il risarcimento per i danni arrecati all'immobile stesso, dopo avere premesso che la domanda proposta dal locatore esulando dal titolo dedotto in giudizio dall'attore non era ammissibile a norma dell'art. 36 c.p.c.; e che il risarcimento non poteva essere fatto valere per il mancato accertamento preventivo dei danni richiesti, per superare in via equitativa la soluzione che sarebbe derivata da tali premesse aveva dichiarato compensate tra le parti le rispettive ragioni di credito e di debito comprese le spese del giudizio. La Suprema Corte ha rilevato che le premesse esposte nella sentenza impugnata erano entrambe erronee, e che il ricorso ai criteri di equità si esauriva nella mera affermazione della necessità di una decisione equitativa, ed ha accolto il ricorso enunciando il principio di cui in massima).