(massima n. 1)
Poiché la contestazione del reato permanente, per l'intrinseca natura del fatto che enuncia, contiene già l'elemento del perdurare della condotta antigiuridica, qualora il pubblico ministero si sia limitato ad indicare esclusivamente la data iniziale (o la data dell'accertamento) e non quella finale, la permanenza — intesa come dato della realtà — deve ritenersi compresa nell'imputazione, sicché l'interessato è chiamato a difendersi nel processo in relazione ad un fatto la cui essenziale connotazione è data dalla sua persistenza nel tempo, senza alcuna necessità che il protrarsi della condotta criminosa formi oggetto di contestazioni suppletive da parte del titolare dell'azione penale. (Nell'affermare detto principio la Corte ha precisato che la contestazione del reato permanente assume una sua vis expansiva fino alla pronuncia della sentenza, e ciò non perché in quel momento cessi o si interrompa naturalisticamente o sostanzialmente la condotta, sibbene solo perché le regole del processo non ammettono che possa formare oggetto di contestazione, di accertamento giudiziale e di sanzione una realtà fenomenica successiva alla sentenza, pur se legata a quella giudicata da un nesso inscindibile per la genesi comune, l'omogeneità e l'assenza di soluzione di continuità, la quale potrà essere eventualmente oggetto di nuova contestazione).