(massima n. 2)
Non è abnorme il procedimento di appello nel quale, a seguito della disciplina transitoria dettata dall'art. 4 ter del D.L. 7 aprile 2000, n. 82, introdotto dalla legge di conversione 5 giugno 2000, n. 144 (che ha reso applicabile il rito abbreviato anche nei processi di appello a beneficio degli imputati che, secondo la normativa previgente, non avevano potuto formulare la relativa istanza), il rito speciale coesista con quello ordinario per gli imputati che non ne abbiano fatto richiesta. La mancata previsione da parte del legislatore della possibilità di una tale coesistenza non può essere intesa come espressione di volontà di esclusione, ma anzi può essere interpretata come ammissione di una possibile convivenza tra i due riti, anche alla luce della norma contenuta nel comma settimo del citato art. 4 ter, nella parte in cui esclude la forma camerale. La coesistenza dei procedimenti comporta solo la necessità che, al momento della decisione, siano tenuti rigorosamente distinti i regimi probatori rispettivamente previsti per ciascuno di essi: sono utilizzabili, in entrambi, le prove già acquisite in precedenza (e per gli imputati ammessi al rito abbreviato anche gli atti contenuti nel fascicolo di cui all'art. 416, comma secondo, del codice di rito), ma non possono essere utilizzate da questi ultimi le prove acquisite al dibattimento in epoca successiva all'ammissione al nuovo rito, mentre per chi ha mantenuto il rito ordinario non sono, invece, utilizzabili le prove contenute nel fascicolo del P.M. (Nel caso di specie, la Suprema Corte, dopo avere affermato che soltanto l'erronea applicazione dell'indicata disciplina delle prove può essere causa di annullamento della sentenza, ha rilevato che non risultava in atti, né era stato eccepito dalle parti, alcun errore nell'applicazione del regime probatorio).