(massima n. 1)
L'obbligo di usare la lingua italiana (art. 109 comma primo c.p.p.) si riferisce agli atti da compiere nel procedimento, non agli atti già formati da acquisire al procedimento medesimo. Ciò deriva, oltre che dal tenore letterale della citata norma e dal principio chiaramente desumibile dall'eccezione stabilita nel comma secondo del predetto articolo, anche dalle espresse e specifiche disposizioni dettate dagli artt. 237, 242 e 143 c.p.p. Secondo il combinato disposto delle predette norme, alla cui osservanza il giudice è tenuto ex art. 124 c.p.p. anche senza richiesta o sollecitazione della difesa, mentre l'acquisizione di qualsiasi documento proveniente dall'imputato può essere disposta anche di ufficio, il giudice «dispone» (cioè deve disporre) la traduzione, a norma dell'art. 143, dei documenti redatti in lingua diversa dall'italiano, se cioè è necessario alla loro comprensione. (Nella fattispecie, il tribunale del riesame aveva rifiutato l'ammissione, perché «incomprensibile», in quanto prodotto in lingua tedesca, di documentazione di cui la difesa aveva chiesto l'ammissione per provare circostanze relative all'alibi, ed aveva rigettato l'istanza di riesame ritenendo l'alibi mancante di prova. La Corte di cassazione, in applicazione del principio di diritto di cui in massima, ha annullato con rinvio l'impugnata ordinanza, specificando che la mancata ammissione della documentazione prodotta dall'indagato e la sua mancata traduzione, anche in udienza ad opera di un interprete di facile e pronta reperibilità, in relazione alla lingua comunitaria adoperata (tedesca) e ai cinque giorni di tempo a disposizione dei giudici, ai fini del termine di cui all'art. 309, comma 10 c.p.p., si riflettono negativamente sulla logica e sulla coerenza della decisione adottata riguardo alla valenza probatoria di detta documentazione).