(massima n. 1)
In base all'art. 2732 c.c. alla parte che abbia reso confessione non è concesso di poter fornire dimostrazione diversa da quella della «revoca» (o invalidità) della confessione stessa in conseguenza di errore di fatto in cui incorse o di violenza su di lei esercitata. La suddetta disposizione, tassativamente espressa, non può mai essere derogata; ad essa, pertanto, restano assoggettate anche le controversie di lavoro non potendo, neanche in queste, alla mancanza di prova ad opera della parte supplire il potere di indagine lasciato al giudice (che rimane limitato, secondo la disciplina generale, alla ricerca dell'animus confitendi). Inoltre, i mezzi di prova di cui, al suddetto fine, la parte confidente richieda l'acquisizione o l'espletamento debbono essere idonei a fornire la dimostrazione rigorosa non di un'eventuale contrarietà dei fatti oggetto della confessione rispetto ad altri presuntivamente verificatisi, ma direttamente della ragione che determinò la caduta in errore sulla veridicità delle circostanze dichiarate (e in effetti non veridiche) o i fatti di violenza sofferti che indussero il dichiarante a precludersi nel futuro il ricorso alle normali vie di difesa per resistere alle richieste avversarie, tenuto conto che — almeno per l'ipotesi in cui si assuma che la confessione fu estorta con violenza — non occorre dimostrare l'obiettiva falsità del fatto.